mercoledì 28 maggio 2008

RIFLESSIONI

Ho fatto un po’ di resistenza, ma alla fine ho deciso di leggere anche io il discorso di Benedetto XVI ai membri del movimento per la vita italiano fatto il 12 maggio 2008. Ci sono stati alcuni passaggi, ma più che altro delle parole, che mi hanno lasciato in bocca il sapore della frustrazione nel non poter parlare a lor signori, uno per uno. Perché più che l’idea di Benedetto XVI che pronuncia queste parole, è l’immagine della platea che annuisce che mette in moto quella parte del mio cervello direttamente collegata con la bile. Uomini e uomini di chiesa che annuiscono.
Non che non ci siano, le donne, all’interno dei movimenti per la vita, ma lascio ad un altro momento i commenti per loro.
Ma a loro, a quegli uomini e a quegli uomini di chiesa, qualcosa ho voglia di dirlo adesso.

Per esempio.

[...] il nobile ideale della promozione e della difesa della vita umana fin dal suo concepimento. [...]

Al di là dello spinoso quanto mai dibattuto concetto di vita, al di là dell’annoso quanto mai scivoloso concetto di concepimento è la parola promozione, unita a vita, che mi ha provocato un moto di fastidio, di quelli che all’inizio non capisci perché.
Che brutta parola promozione se la devo pensare in relazione alla vita.
Come se le mie giornate, i miei anni fossero un pacco di sapone per la lavatrice da promuovere, a cui fare pubblicità.
E che cos’è la pubblicità se non qualcosa di patinato, irreale e traslucido? Ed è così che ci offrite la vita. Nel migliore dei casi. Sì, nel migliore dei casi ci dite di gioire della vita in quanto dono. E se qualcuno obietta (verbo sicuramente tra i più gettonati) avanzando l’ipotesi che così come stanno le cose la vita è una merda, lo guardate amorevolmente, con lo sguardo colmo di compassione, ma anche di un pizzico di insofferenza, e dite che anche della merda dobbiamo essere grati.

Evidentemente, quando parliamo di vita, io e voi parliamo di cose diverse.
Io quando parlo di vita penso a quello che è e che quello che vorrei che fosse. Quando parlo di vita penso allo sforzo di farla assomigliare alla migliore delle vite possibili, scontrandomi quotidianamente contro chi la vuole controllare e dirigere al posto mio.
Adesso, quando penso alla vita, penso alle cose belle, come una birra seduta sugli scalini della piazza dietro casa mia, con le persone che amo, che non posso più fare perché bivaccare degrada l’immagine di città cartolina tridimensionale in cui non c’è posto per me.
Adesso, quando penso alla vita, penso alle passeggiate notturne, sola, che qualcuno tenta con tutte le sue forze di farmi vivere con terrore.
Se penso alla vita penso alla realizzazione di desideri e progetti secondo le mie voglie e le mie possibilità. Anche scegliere di non sposarmi, scegliere di non avere figli. Scegliere di essere quello che voglio essere. Dire quello che penso, non sentirmi strumento.
Quando penso alla vita non penso a qualcosa da vivere male oggi in cambio di una vita migliore dopo.
E forse è qui, che io e voi, usiamo un vocabolario diverso.

Esattamente come quando parlo, come quando parlate, di dignità.
Dignitoso è avere sempre la possibilità di scegliere. Dignitoso è poter decidere di se stessi e della propria vita. Dignitoso è scegliere il momento in cui essere madre, e non sottostare ad un obbligo etico, morale o religioso.
Altrimenti la maternità diventa solo qualcosa che deve essere fatto.
Fare figli è solo un punto dell’elenco della vita da spuntare. Come dire, sedute in salotto con in mano una tazza di té: “allora, la maturità l’ho fatta, la laurea idem, poi cosa c’è, ah sì, la patente ce l’ho, sposata sono sposata, la casa l’ho comprata, adesso faccio un figlio”.
E se il figlio ci capita addosso, dignità è poter scegliere di non averlo.
Perché non me lo posso economicamente permettere, perché non sono emotivamente pronta, perché la mia vita prenderebbe una direzione che non desidero, perché non è vero che lo spirito materno appartiene a tutte e allora, semplicemente, quel figlio non lo voglio.
Altrimenti un figlio cosa può diventare?

E poi.

[...] difendere la vita umana è diventato oggi praticamente più difficile, perché si è creata una mentalità di progressivo svilimento del suo valore, affidato al giudizio del singolo. Come conseguenza ne è derivato un minor rispetto per la stessa persona umana, valore questo che sta alla base di ogni civile convivenza, al di là della fede che si professa. [...]

Ma se la vita di ognuno di noi non fosse affidata al giudizio del singolo, a chi diavolo dovrebbe essere affidata?
Mi rendo conto, qui il discorso scivola drammaticamente verso la banalità delle cose ripetute all’infinito, da una parte e dall’altra.
Come può qualcuno che non sono io stabilire cosa sia giusto o sbagliato per me?
Maledetta tendenza alla delega e alla sottomissione che colpisce la maggior parte. La necessità, quasi cronica, che sia qualcuno fuori da noi, ad indicarci la strada.
Questa odiosa consuetudine ad affidare a qualcuno, creduto più autorevole di noi, le nostre scelte.
Cosa dobbiamo amare, cosa dobbiamo odiare, chi e cosa ci deve fare paura, cosa ci deve realizzare, quando e come portare avanti scelte spesso irreversibili.
Questo malato modo di vivere che permette a chi non ha una famiglia di dirci quale sia la famiglia giusta. Questo malato modo di vivere che permette a chi non sa cosa significhi scoprirsi incinta di dirci e spiegarci cosa questo porti con se, quali siano le implicazioni non solo di una gravidanza portata a termine, l’essere madre, l’essere padre, ma anche le conseguenze di un aborto. Come se io mi svegliassi una mattina e pretendessi di spiegare al mondo la fusione a freddo senza aver mai aperto un libro di fisica.
No.
Come se io mi svegliassi una mattina e pretendessi di spiegare a qualcuno cosa significa provare qualcosa che non ho mai provato e che non proverò mai. Nemmeno con la più fervida immaginazione.
E poi si parla di rispetto.
Ma rispetto per chi? Rispetto per cosa?
Rispettare significa accettare l’altro. Rispettare significa fare un passo indietro davanti al dolore che qualcuno può provare. Rispetto significa fare un passo indietro di fronte all’autonomia decisionale di ogni individuo. Rispetto significa non imporre. Rispetto significa lasciare che ognuno viva secondo le proprie inclinazioni.

Intasco l’inutilità di questo sfogo, detto e ripetuto mille volte, e vado avanti.

[...]. L’aver permesso di ricorrere all’interruzione di gravidanza, non solo non ha risolto i problemi che affliggono molte donne e non pochi nuclei familiari, ma ha aperto una ulteriore ferita nelle nostre società, già purtroppo gravate da profonde sofferenze. [...]

Tenuto conto e partendo dal presupposto che non credo siate a conoscenza dei problemi che affliggono le donne, mi soffermo sul concetto di permesso.
Tenuto conto e partendo dal presupposto che non si permette a qualcuno di fare qualcosa che ha tutto il diritto di fare.
Ma volendomi proprio accapigliare su questo uso sconcio del verbo permettere, mi permetto di dire che permetterci di ricorrere all’interruzione di gravidanza ci ha permesso di non morire.
Perché prima che ci fosse permesso, noi abortivamo lo stesso.
E morivamo.
Quindi, senza entrare nel merito di una legge su cui il dibattito è giustamente aperto, perché forse, aperte, abbiamo lasciato troppe porte da cui possono entrare obiettori e moralisti, senza entrare nel merito del concetto di legge, la 194 è qualcosa di dignitoso, che rispetta la vita umana, che permette al singolo individuo donna di decidere della propria esistenza.

Punto.


Mia

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